“A cena con l’Agnello” (Ad coenam Agni providi)

Nell’inno di Vespro del tempo pasquale sono da sottolineare alcune risonanze scritturistiche: l’Agnello, il passaggio del mare, Gesù il Primogenito.

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di: Nico Guerini

Nell’inno di Vespro del tempo pasquale sono da sottolineare alcune risonanze scritturistiche: l’Agnello, il passaggio del mare, Gesù il Primogenito.

Ad coenam Agni providi,
stolis salutis candidi,
post transitum Maris Rubri,
Christo canamus Principi. 
A cena con l’Agnello,
salvati, in vesti candide,
traversato il mar Rosso,
cantiamo a Cristo, il Principe!

 

La prima strofa dell’inno per i Vespri del tempo pasquale presenta un testo densissimo, ricco di figure suggestive, in cui si intrecciano temi teologici e spirituali che chiedono di essere considerati con grande attenzione. Una cena al declinare del giorno, un incontro intimo e sereno al calare del vespro, già nella prospettiva del riposo notturno: come non evocare la splendida scena che vede i due discepoli in viaggio verso Emmaus seduti ai lati del misterioso, anonimo viandante che si era accostato loro lungo la strada (Lc 23,40)?

E insieme, quasi a commento, l’incoraggiante promessa fatta «all’angelo della Chiesa di Laodicea» da parte di uno che si descrive come «l’Amen, il Testimone degno di fede e veritiero, il Principio della creazione di Dio» (Ap 3,14), che si annuncia con discrezione commovente: «Sto alla porta e busso, se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3,20).

Forse il riassunto più bello della sera di Pasqua, oltre le atrocità spaventose del venerdì, oltre l’angosciante silenzio del sabato, persino oltre il sussulto emotivo, tra la sorpresa e l’incredulità, alla vista del Risorto, resta questa pace “domestica” al tramonto del primo giorno della settimana.

La scena che ci vede raccolti alla mensa dell’Agnello, per gioire della presenza rassicurante di colui che è nostro ospite e insieme nostro cibo, in un gesto di accoglienza così integrale da superare ogni distanza, sembra fatta per introdurre la grandezza sconvolgente della risurrezione nelle misure modeste della quotidianità.

Al centro l’Agnello

Il centro è occupato in modo inequivoco della figura dell’Agnello. Annunciato all’inizio del racconto evangelico come spiraglio di luce in un quadro fosco, come uno che «toglie il male dal/del mondo» (Gv 1,29), riappare da trionfatore in vesti regali nelle grandi visioni dell’Apocalisse (4-7), da dove arrivano parole, temi e immagini dell’inno della sera di Pasqua.

Il quadro domestico, evocato dalla storia di Emmaus e dalle parole rivolte all’angelo di Laodicea, si dilata in una grandiosa visione cosmica: «Vidi una moltitudine immensa che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua; tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palme nelle loro mani» (Ap 7,9). Chi sono costoro? «Quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello» (Ap 7,14). Sono quelli che hanno terminato il transito del Mar Rosso, e che ora cantano e acclamano la guida che li ha preceduti sullo stesso itinerario, il loro Princeps!

La precedente versione dell’Inno esaltava la dimensione “trionfale” dell’Agnello vittima: Ad regias Agni dapes / stolis amicti candidis  (Al banchetto regale dell’Agnello / avvolti in vesti candide).

La versione presente, con il banchetto ridotto a una più ordinaria «cena», entra maggiormente nell’ordinario e forse corrisponde meglio alla nostra spiritualità, diversa da quella altomedievale. Inoltre, non si tratta più del candore delle «vesti», ma di quello della nostra carne: siamo noi a essere «candidi», grazie alla «salvezza» che ci è stata guadagnata dalla carne martoriata e risorta di Cristo, grazie al suo sangue, che, come quello dell’agnello dell’Esodo, ci risparmia dalla distruzione.

Torniamo, con queste immagini, alla realtà fondante della Pasqua cristiana: la liberazione degli ebrei dall’Egitto, il loro passaggio «dalla schiavitù al servizio», come recita l’indovinatissimo titolo di uno studio sull’Esodo.

Dopo la cena, dopo la veste bianca, la nostra attenzione è attratta dalla figura del transito, del passaggio, della traversata. L’immagine è contenuta nello stesso significato della parola Pasqua, sia che si intenda il passaggio di Dio in mezzo al suo popolo, sia che si suggerisca il passaggio che il popolo è chiamato a fare dall’oppressione del Faraone alla gioiosa sottomissione a un Dio “liberatore”. E qui rifulge il grande paradosso della Pasqua, perché questo «mare» che siamo chiamati ad attraversare è quello più in generale della vita, con tutte le sue ambiguità, e più precisamente – per rimanere nel linguaggio dell’Apocalisse – quello della “tribolazione”, che ha il sorprendente effetto di salvarci, trasfigurarci e renderci radiosi!

Il passaggio del mare

Il Mar Rosso è un riferimento storico obbligatorio. È necessario, però, coglierne anche il valore metaforico di una radicale ambivalenza. Quel «mare», inquietante come ogni distesa d’acqua che si frappone a bloccare un cammino, è acqua di vita e di morte, è salvezza per gli uni e disastro per gli altri, come ricordano le antiche catechesi battesimali.

Giorni fa, mentre andavo esplorando questa strofa, mi sono imbattuto nel brano di Gv 6,16-21 in cui i discepoli si trovano in una barca sballottati in un mare agitato. Sono “senza Gesù”, ed è la sua apparizione che li rassicura liberandoli dal panico che nasce quando ci si sente abbandonati da una presenza affidabile.

Il Mar Rosso richiama l’epopea del popolo ebraico, uno scenario grandioso parallelo alla visione dell’Apocalisse, e ci aiuta a ricordare che noi viviamo la fede nella storia di un popolo, nella grande comunità della Chiesa. Ma è altrettanto necessario riportare questa esperienza in dimensioni più ordinarie.

Aelredo di Rievaulx ha elaborato in un suo sermone (Sermone 24, per la Natività di Maria, in Una rugiada luminosa, Praglia 2014, p. 376-380) l’immagine della traversata di quel mare che è la vita. Per muoversi sulle onde verso il porto, egli vede la necessità di un lignum (legno, barca), che egli identifica prima in una “relazione”: coniugale, amicale, una comunità ecc. Poi vi sovrappone quell’altro lignum che è la «croce», connessione che non dovrebbe sorprenderci. Il senso finale è che l’aiuto nella traversata viene dal “portare insieme la croce”, alla quale Gesù ha dato senso morendovi sopra per amore. Come ha detto un teologo: prima e più che essere un prezzo da pagare per ottenere la salvezza, «il sacrificio è il linguaggio fisico dell’amore». Questa è oggi la visione prevalente della croce come esempio!

Cristo Principe

L’ultima immagine della strofa è il canto elevato a Cristo Principe! Canto per un traguardo raggiunto (la cena, la liberazione, il transito compiuto), e canto dei pellegrini ancora in cammino.

Princeps dice un primato temporale: Gesù è stato il primo a portare a termine con successo la traversata. A questo si aggiunge un rango che lo fa «il primogenito dei morti e il principe dei re della terra» (Ap 1,5; Col 1,18). Infine, il termine indica la dignità “regale”, posseduta all’origine (cf. Col 1,15), ma riconquistata dalla sua “carne”, umiliata sulla croce, diventata il legno del suo trionfo: Regnavit a ligno Deus!

Oggi è ancora e sempre lui che ci precede, ci accompagna e ci segue nell’attraversare la vita con le sue gioie e le sue tribolazioni. Il bello della fede, prima di ogni altra cosa, è «avere una compagnia». Per questo cantiamo! A lei e con lui. Il canto, ricorda sant’Agostino, si fa «con le voci, con i cuori, con le labbra, con la vita»; esso «ha a che fare con la gioia, e, al fondo, con l’amore» (Sermone 34,5-6).

L’Apocalisse è piena di canti, canti “nuovi” che sono propri di quegli uomini “nuovi” che stanno compiendo o hanno compiuto la traversata (Ap 5,9-14; 7,11-17; 15,3-4; 19,1-19). Molti sono ripresi nei Vespri della Liturgia delle ore. Cosa rende “nuovi” questi cantori felici? La conoscenza di Gesù, il fascino del suo esempio, la scelta di seguirlo sulla Via tracciata da lui, Via che è lui (Gv 14,6). Sono nuovi perché praticano il «comandamento nuovo», quello dell’amore fraterno (Gv 13,34).

Nello stesso sermone citato, Agostino precisa che Gesù non ci chiede semplicemente di “amare”, essendo questo naturale, ma ci dice cosa e come amare! Risulta cruciale, dunque, la “scelta”, ma – continua – noi non possiamo scegliere se prima non abbiamo la percezione di essere scelti (Gv 15,16), come non siamo in grado di amare se prima non ci sentiamo amati.

È esperienza di tutti, ma importa capire che tale bisogno deve anche tradursi in impegno: chiedere amore implica offrire amore. Da istinto e bisogno, l’amore è chiamato a diventare una capacità! Tutto questo è variamente visualizzato nell’icona della cena, nella veste bianca «lavata nel sangue», nel sostegno che ci diamo l’un l’altro nel compiere la traversata, e nel cantare, insieme, canto che traduce la nostra gioia e il nostro amore, col salutare contagio che ne segue. Che è poi la vera e immutabile evangelizzazione, vecchia o nuova che sia.